Quando ci riferiamo ai Disturbi del Comportamento Alimentare quello che ci viene in mente è l’immagine di una ragazza molto magra che non vuole mangiare o di una ragazza che, dopo aver mangiato, corre in bagno a vomitare. E il nostro pensiero successivo è: ”Perché non vuole mangiare? Ma non vede come è magra?”.
Siamo sicuri che i DCA si riducano solo a questo, ovvero a scegliere volontariamente di non mangiare?
Ovviamente no.
I DCA sono dei disturbi complessi che comprendono diversi quadri patologici che vanno dall’anoressia nervosa al binge-eating, dalla bulimia a forme che non rientrano in alcuna categoria, quello che li collega è un comune substrato psicopatologico.
Ma andiamo con ordine, cosa sono i disturbi del comportamento alimentare?
I DCA sono disturbi dell’alimentazione e dei comportamenti ad essa connessi, in conseguenza di cui si verifica un alterato consumo e/o assorbimento di cibo con compromissione della salute fisica e del funzionamento psico-sociale.
Chi soffre tipicamente di questi disturbi?
• gli adolescenti: in questa fase di grandi cambiamenti fisici e psicologici, può succedere che i pensieri si concentrino maggiormente sulle forme del corpo, così come si cerchino delle modalità per affermarsi e distinguersi
• gli atleti di sport in cui è richiesta la magrezza ai fini atletici come la danza, il nuoto sincronizzato, l’atletica leggera, gli sport da combattimento
• chi fa lavori che si basano sull’aspetto fisico e la magrezza: modelli, lavoratori del mondo dello spettacolo
In queste categorie ad essere maggiormente colpite sono le femmine, questo avviene perché esiste una pressione sociale legata all’aspetto fisico: una donna di successo è sempre una donna magra.
I maschi non sono però esclusi dalla possibilità di sviluppare un disturbo alimentare. In loro, tuttavia, prevale la preoccupazione di raggiungere un corpo particolarmente atletico e muscoloso.
La cosa importante da capire, e spesso è questo l’aspetto più difficile per chi sta accanto a queste persone (genitori, amici, fidanzati/e), è che il DCA non è una scelta di vita e che non basta accettare di aver un problema per poterlo risolvere. Una volta che il disturbo si è sviluppato esistono dei meccanismi che lo mantengono, indipendenti dalla volontà dell’individuo che diventa vittima di un circolo vizioso.
“Sono grassa, devo dimagrire perché solo così potrò essere felice”
“Le mie cosce si toccano, sono proprio una botte”
“Se non perdo peso, non valgo proprio nulla”
Questi sono alcuni dei pensieri che costituiscono il nucleo psicopatologico di ogni DCA e che portano chi ne è affetto a intraprendere delle diete molto rigide con una serie di regole che vanno rispettate per forza: questo è l’unico modo per mantenere il controllo.
Spesso la dieta è accompagnata, con lo stesso obiettivo, da esercizio fisico eccessivo che va fatto “a tutti i costi”.
La dieta ferrea porta a un peso basso che ha non solo conseguenze a livello fisico, ma anche psicologico e sociale, facendo ruotare tutto attorno alla valutazione del peso: con un peso fortemente ridotto si deprime il metabolismo basale (ossia l’energia che il corpo consuma a riposo) ciò vuol dire che per ridurre ulteriormente il suo peso la persona dovrà restringere sempre più la sua alimentazione e questo non farà altro che condurre di continuo i suoi pensieri alla dieta.
Ci sono, inoltre, casi in cui la dieta ferrea viene interrotta da abbuffate che, coi sensi di colpa che ne conseguono, non fanno che riportare il pensiero al peso, alla forma del corpo e all’alimentazione rendendo così la dieta ancora più stringente: ancora una volta si crea un circolo vizioso che mantiene vivo il problema.
Frequentemente vengono attuati dei tentativi di compenso all’abbuffata come procurarsi il vomito, abusare di lassativi e diuretici o incrementare l’esercizio fisico, alla lunga tutto questo finisce per indurre l’abbuffata perché il soggetto sa di avere “un’arma” per compensare.
Arrivati a questo punto il DCA si automantiene e non basta prenderne consapevolezza, cosa tra l’altro ben complessa e difficile per chi ne è affetto, ma serve una terapia strutturata che interrompa questi meccanismi.